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Arcidonna News Le donne escluse dai cda delle aziende italiane
Le donne escluse dai cda delle aziende italiane Print E-mail
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Un'impresa su due non annovera neanche un consigliere di sesso femminile. Le presenza rosa aumenta solo laddove manca il potere decisionale. E' quanto emerge da un'indagine condotta dalla Aliberti Governance Advisor su dati della Consob align="justify"> Se fossimo in Norvegia, dovremmo chiudere Piazza Affari. Basta società quotate. Perché, quanto a presenza di donne nei consigli di amministrazione, siamo a una distanza siderale dai numeri di cui si sta discutendo in Norvegia. Mentre là il governo sembra deciso a far rispettare la legge che vuole un 40% di donne nei cda, e dunque a chiudere le aziende (sono più di un centinaio) che non si sono adeguate entro il 31 dicembre dell’anno scorso come avrebbero dovuto fare, qui in Italia più delle metà delle aziende quotate in Borsa non ha neanche una donna nei suoi organi sociali.

Figlie, mogli, madri
Quando ci sono, le donne sono perlopiù sole in consessi totalmente maschili e, soprattutto, appartengono alla famiglia che possiede l’impresa. Insomma, figlie, mogli, madri o sorelle. Non è un caso che se si guarda un organismo come il collegio sindacale, la cui funzione dev’essere ricoperta da persone estranee alla proprietà, la presenza delle donne tracolla: l’88% dei collegi sindacali delle società quotate italiane schiera solo professionisti uomini. È questo il risultato di un’analisi sulla composizione dei consigli di amministrazione e sui collegi sindacali fatto dal Corriere della Sera insieme con Livia Aliberti Amidani, di Aliberti Governance Advisor, su dati della Consob al 2 gennaio. Un totale di solo 202 donne con incarichi effettivi su quasi 4 mila posti disponibili. Che significa il 5,2%; percentuale che sale al 6,6% (296 posti su quasi 4.500 incarichi) se si considerano anche le posizioni supplenti, dove le donne sono più presenti. Dice la ministra delle Pari Opportunità Barbara Pollastrini: «In un Paese che è fanalino di coda come l’Italia, servono terapie choc. Infatti—preannuncia —, in tempi rapidi presenterò in consiglio dei ministri un pacchetto di provvedimenti che toccano più tasti: tra questi ci saranno anche regole transitorie che spingano "forzatamente" l’immissione di competenze femminili nei consigli di amministrazione e nelle funzioni dirigenti negli enti e nelle aziende pubbliche. Per le aziende quotate la questione è più delicata, ma non sono sfavorevole alle norme adottate in Norvegia: anche in questo caso dobbiamo trovare forme per incentivare in modo forte le imprese a riconoscere i meriti femminili nei vertici».

Le nostre norvegesi
Pochissime donne e di famiglia (ma anche questo è in qualche modo un cambiamento: fino a pochi anni fa le figlie venivano liquidate in denaro e immobili, mentre le azioni restano ai figli maschi). Provando a vedere se, tra le aziende quotate, c’è qualcuna che rispetta i canoni norvegesi, si trova solo la Kaitech, azienda di information tecnology il cui 40% di presenza femminile è un fatto delle ultime settimane, dopo il rinnovo del consiglio di amministrazione nel quale sono entrate due donne, amministratrici indipendenti, seguito all’indagine aperta dalla Consob (l’organo di controllo del mercato) sui conti dell’azienda. Vicina al 40% è anche la As Roma, con 4 donne (su 11 consiglieri), tre delle quali sono le sorelle Sensi, della famiglia azionista di riferimento. L’analisi sulla composizione dei consigli di amministrazione, dice però anche un’altra cosa. E cioè che anche le donne siedono in cda più ampi della media (10,4 contro 9,9), e questo significa che quando ci sono pochi posti, solitamente vanno a consiglieri uomini. Questo si vede soprattutto nelle società di maggiori dimensioni, dove capita anche di trovare donne che hanno più di una carica, ma di solito avviene in consigli parecchio numerosi. «Complessivamente è un quadro molto deludente — sintetizza Livia Aliberti Amidani —. I consigli di amministrazione hanno per loro natura evoluzioni lente, ma nel caso della presenza femminile appare evidente che sia necessario un intervento normativo sulla falsariga di quello che ha introdotto gli amministratori di minoranza».

Vertici contati
Le posizioni di primissimo vertice sono veramente poche: nessun presidente di consiglio di sorveglianza, un solo presidente onorario di consiglio di amministrazione (Elisa Lorezon in Stefanel), un solo consigliere di gestione (Emma Marcegaglia in Banco Popolare), due soli consiglieri di sorveglianza (Rosalba Casiraghi e Jonella Ligresti), tre vice presidenti e amministratori delegati (Giulia Ligresti, Donatella Ratti, Manuela Giorgetti), nove soli amministratori delegati... Molto forte, in proporzione, è invece la presenza femminile tra i sindaci supplenti (94 incarichi su un totale di cariche societarie di 296) a dimostrazione, dice Aliberti Amidani, «che le disparità diminuiscono quando le donne non hanno la possibilità di incidere». Anche se si esce da Piazza Affari, il quadro non cambia granché. Nelle aziende piccole e medie non quotate la presenza di donne nei cda aumenta con l’aumentare delle donne azioniste — come dice un’analisi realizzata da Daniela Montemerlo, professore associato all’università dell’Insubria e docente della Sda Bocconi — mentre si riduce quando la proprietà diventa più frammentata. «La strada norvegese mi sembra un po’ drastica — dice Montemerlo — ma le quote hanno il vantaggio di dare una scossa al sistema». «Il fatto singolare nel nostro Paese è che non ci sia mai un’azione spontanea da parte delle società, che non ci sia mai qualcuno che dica "c’è un problema (e la scarsa presenza femminile nel mondo del lavoro è un problema) vediamo cosa fare concretamente" — dice Salvatore Bragantini, ex commissario Consob —. In Italia si dovrà andare verso una qualche forma forzosa, anche se io punterei a non fare programmi troppo ambiziosi, ma irraggiungibili: occorrono quote progressive che salgano nel tempo. Un obiettivo ragionevole a mio parere sarebbe arrivare al 15% tra tre anni e al 30% tra sei». Favorevole a un utilizzo «soft e a tempo» di meccanismi coercitivi «che consentano di sbloccare un sistema sistematicamente bloccato come l’Italia» è anche il docente Maurizio Ferrera. E cita la Spagna che ha scelto una strada diversa dalla Norvegia, pur con gli stessi obiettivi, e dove per esempio non ammettono alle gare per appalti pubblici le aziende private che non rispettano certe quote o che non predispongano piani per garantire l’accesso delle donne al vertice. Quella Spagna che ha appena dichiarato di aver superato l’Italia nella crescita.

tratto da: Corriere.it

8 gennaio 2008

 
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