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Arcidonna News Afghanistan: sfregiata perché va a scuola, ma lei non s'arrende
Afghanistan: sfregiata perché va a scuola, ma lei non s'arrende Print E-mail
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Si chiama Shamsia, 17 anni. Gli integralisti le hanno gettato l'acido sul volto in segno di punizione perché frequenta un liceo di uomini. Ma lei non ci sta e dice: "Voglio continuare con la scuola, anche se dovessero uccidermi. Ecco il messaggio per i miei nemici: andrò avanti, anche se mi colpissero cento volte"

Camminano tranquille, scherzano fra loro, ridono persino. E se è necessario rivolgono la parola agli uomini. Le giovani donne di Kabul scelgono il velo nero che copre i capelli, ma lascia fuori il sorriso. Oggi nella capitale i fantasmi azzurri con il burqa sono una minoranza, forse tre donne su dieci. E per queste disgraziate il velo integrale non serve a nascondere la bellezza, come vuole la lettura più retriva del Corano, ma a salvare i resti della loro dignità mentre chiedono il bakshish, l'elemosina.

Ma per gli integralisti di Kandahar imporre la copertura del volto non basta. L'esempio l'aveva dato Gulbuddin Hekmatyar, il signore della guerra che già negli anni Settanta, da studente universitario, aveva gettato acido sulle colleghe colpevoli di andare a lezione con il viso scoperto. Da quel debutto significativo sono passati quasi quarant'anni, e sotto il suo burqa la giovanissima Shamsia non si aspettava di essere aggredita mercoledì scorso assieme ad altre 14 ragazze con lo stesso sistema, solo perché era diretta al liceo femminile Mirwais Nika. A dar scandalo, per i due fanatici armati di pistola ad acqua carica di acido solforico, non era l'esibizione del volto, che era nascosto dietro il tessuto celeste. Era scandaloso che a diciassette anni Shamsia non accettasse di tornare al Medioevo, che si ribellasse al destino tracciato dai Taliban, e che volesse studiare come i coetanei maschi. Così l'hanno colpita, sfregiandole il volto e sperando di spaventarne l'animo.

Ma Shamsia è la generazione nuova, quella delle donne che costruiranno il nuovo Afghanistan. "Voglio continuare con la scuola, anche se dovessero uccidermi", ha subito detto dal suo letto d'ospedale: "Ecco il messaggio per i miei nemici: andrò avanti, anche se mi colpissero cento volte". Con tutta probabilità Shamsia se la caverà con qualche brutta cicatrice. Non importa che sia stata un po' di fortuna nella disgrazia, o che sia paradossalmente merito del burqa che l'ha protetta dall'acido. Quello che conta è che indietro non si torna, nonostante la campagna di violenze, nonostante stupri ed esecuzioni sommarie, come quella delle due inservienti di Ghazni, giustiziate per strada in quanto "prostitute" perché lavoravano nella locale base Usa.

Per le donne d'Afghanistan le notizie degli ultimi mesi sono un bollettino di guerra. L'Organizzazione afgana per i diritti umani ha lanciato l'allarme e ha chiesto un intervento del governo: gli abusi sono in aumento e quasi sempre a danno di bambine. Nella provincia di Jowzian fra le vittime di stupro c'è anche una creaturina di due anni e mezzo. A Sarpul la dodicenne Anisa ha subìto uno stupro di gruppo, e la famiglia ha minacciato un suicidio di massa se non avrà giustizia. Ma sull'apparato giudiziario afgano nessuno si illude. Nella provincia di Sar-e-Pul cinque funzionari di polizia sono stati licenziati per non aver indagato sulla violenza a una dodicenne. Abdul Hameed Aimaq, senatore di Kunduz, ai microfoni della Bbc ha sparato a zero: "I tribunali sono corrotti. I procuratori sono corrotti. E nessuno ne chiede conto. Per questo ci sono omicidi, violenze, furti e tutto il resto. In realtà il governo non esiste". Non c'è scampo nemmeno all'interno del matrimonio. Quando le nozze combinate dalle famiglie sono sgradite e i mariti le maltrattano, le ragazze si suicidano dandosi fuoco. I casi sono così frequenti che la Cooperazione italiana ha deciso di finanziare la costruzione di un nuovo reparto ustionati nell'ospedale Esteqlal di Kabul.

Persino i Taliban hanno sconfessato il gesto dei fanatici di Kandahar. Ma per Fawzia Koofì "è stato senz'altro un gesto terroristico. E la cosa più sconvolgente", dice la vicepresidente della Wolesi Jirga, la camera bassa del parlamento afgano, "è che sia successo in una grande città, non in un'area rurale. Questo dimostra che il problema non è l'arretratezza culturale. Il problema è la cultura dell'impunità, la certezza che chi commette violenza contro le donne va incontro a punizioni insignificanti. Il problema è che lo stesso Hamid Karzai ha graziato dopo solo due anni di carcere un condannato all'ergastolo per reati contro le donne".

Ma l'Afghanistan non è disponibile a tornare indietro fino ai tempi dell'apartheid sessuale più totale. La rivolta è fatta di gesti quotidiani e di piccoli passi. Una prova è sulle colline sopra Kabul, dov'è arrampicato il villaggio di Tangi Kalay. Qui padre Giuseppe Moretti ha fondato la "Scuola della pace" badando che fosse aperta a tutti, maschi e femmine, dei villaggi vicini. Le ragazze, racconta il sacerdote, sono un terzo del totale. In compenso la loro frequenza è più assidua, perché le famiglie spesso mandano i maschietti a lavorare. "Quando sono venuto per la prima volta in Afghanistan, nel '77, non c'erano nemmeno i burqa. E' stata una novità triste". Padre Giuseppe è coraggioso: la sua prima elementare è addirittura una classe mista. Perché lui lo sa, e lo dice apertamente: "Il futuro di questo paese è difficile e lontano. Ma è senz'altro in mano alle donne".

Tratto da Repubblica.it

 
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